Associazione Libra

LO SHOPPING COMPULSIVO

Sara Ginanneschi – Dimitra Kakaraki

Articolo già pubblicato su “Osservatorio di Psicologia”

Lo shopping compulsivo rientra nel novero delle new addictions, cioè, di tutte quelle dipendenze dove il meccanismo di dipendenza non nasce da una sostanza ma da un comportamento.
Trattare questo argomento è complesso per diversi ordini di motivi. In primo luogo si nota che i limiti nella comprensione e identificazione della patologia deriva soprattutto dalla difficoltà di parlare di dipendenza per un’attività che da sempre è considerata come piacevole, gratificante e innocua e, soprattutto come un’attività socialmente riconosciuta ed accettata, un tempo privilegio di pochi; in secondo luogo, perchè trattandosi di una patologia “nuova”, esistono ancora diatribe in merito alla categoria diagnostica di inquadramento nosografico e sulle caratteristiche peculiari della patologia, non ancora univocamente riconosciute da parte degli esperti del settore delle dipendenze.

Lo shopping compulsivo rappresenta un argomento di crescente interesse sia nell’ambito della letteratura medico-scientifica, specificatamente psichiatrica, che in quello delle ricerche sui comportamenti di consumo. Il motivo sottostante questa trasformazione risiede nei cambiamenti sociali e culturali verificatisi in epoca recente, in quanto oltre lo shopping tradizionale effettuato nei negozi, oggi sono offerte al pubblico delle forme rivoluzionarie per fare acquisti: lo shopping online (e-commerce), le aste online, le vendite tramite canali televisivi che si occupano esclusivamente di vendita e le vendite telefoniche (telemarketing).
Sebbene gli studi si siano intensificati negli ultimi anni, come già accennato, la prima definizione di questo disturbo risale al 1915, ad opera dello psichiatra tedesco Emil Kraepelin che ha introdotto il concetto di “oniomania” e lo ha descritto come un impulso patologico. Nel 1924 Eugen Bleuler, rifacendosi all’opera di Kraepelin, ha collocato la mania per l’acquisto tra gli impulsi reattivi e ne ha sottolineato l’elemento della compulsività.
Si deve, però, a McElroy et al. (1994) la formulazione di una definizione funzionale alla clinica e alla ricerca mediante lo sviluppo di criteri diagnostici dello shopping compulsivo. Tali criteri, rivisitati e confermati dall’equipe della Lejoyeux (Lejoyeeux et al., 2000, p.130), hanno il pregio di essersi ispirati al DSM-III-R (APA, 1987) e contemporaneamente ai criteri che il manuale propone per i disturbi del controllo degli impulsi e per i disturbi ossessivo-compulsivi, per mantenere poi solo quei criteri che avevano trovato riscontro nella concretezza della casistica studiata.
Elemento fondamentale è rappresentato dalla frequente preoccupazione o impulso a comprare, esperiti come irresistibili, intrusivi o insensati; comprare frequentemente al di sopra delle proprie possibilità, spesso oggetti inutili (o di cui non si ha bisogno) per un periodo di tempo più lungo di quello stabilito.
La preoccupazione, l’impulso o l’atto del comprare causano stress marcato, fanno consumare tempo, interferiscono significativamente con il funzionamento sociale e lavorativo o determinano problemi finanziari (indebitamento o bancarotta). Il comprare in maniera eccessiva non si presenta esclusivamente durante i periodi di mania o ipomania.
Pochi studi fino ad oggi hanno valutato la prevalenza dello shopping compulsivo. Sia in campioni clinici che in campioni di comunità il disturbo appare prevalente nel sesso femminile con una percentuale che va dall’80% al 92%. L’età di insorgenza è compresa tra 18 e 30 anni mentre l’età media varia dai 31 ai 39 anni, con una variabilità probabilmente imputabile a metodi di reclutamento del campione (McElroy S.L. et al., 1994). Dati più recenti attestano che la prevalenza di questo disturbo varia dall’1,8% all’8,1% della popolazione degli Stati Uniti con una ratio femmine/maschi di 9:1 (Black, 2001).
L’eziologia dello shopping compulsivo rappresenta un problema ancora di difficile risoluzione, in quanto il disturbo presenta aspetti riconducibili ad altre patologie già classificate, quali il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, la Depressione, La Dipendenza ed il Disturbo del Controllo degli Impulsi, motivo per il quale esistono definizioni diverse come: consumopatia abusiva, consumopatia da dipendenza, compulsive consumption, impulsive buying, compulsive buying, shopping addiction o ancora addictive buying.
Secondo l’APA, lo shopping compulsivo rientrerebbe nello spettro ossessivo-compulsivo perché ne condivide quest’ultimo aspetto, vale a dire, la spinta a compiere un determinato comportamento, che, più che al raggiungimento del piacere, è volto all’alleviamento di uno stato di malessere.
Dall’altra parte lo shopping compulsivo condivide alcuni aspetti tipici dei disturbi del controllo degli impulsi NAS (APA, 2000); infatti, l’incapacità di controllare un comportamento è un fattore certamente centrale. Il soggetto avverte una forte tensione crescente, che si tramuta quasi in dolore, e preme sino a che la persona “agisce” il comportamento, compra senza controllo. Il momento dell’azione è liberatorio e si prova una sensazione di piacere, purtroppo momentanea, poiché subito dopo il sentimento spiacevole e doloroso del senso di colpa lo invade. Una conseguenza è la perdita di controllo non solo sui propri comportamenti di acquisto ma anche sulla propria vita in generale.
E’ importante sottolineare la differenza dei due costrutti, compulsione e l’impulsività: nel primo caso abbiamo la tendenza irrazionale che spinge l’individuo a mettere in atto comportamenti in cui egli stesso riconosce l’inutilità e l’inadeguatezza, ma la cui mancata esecuzione provoca in lui una sensazione d’angoscia. Le azioni compulsive, caratterizzate risultano ego distoniche, perché l’individuo non vorrebbe agirle ed inoltre creano stress, sensi di colpa e conseguenze negative di vario genere e gravità. Nel secondo caso, invece, l’impulsività definita come la disposizione a comportamenti improvvisi, bruschi, inattesi e irrazionali, spesso dannosi, percepiti dal soggetto come bisogni imperiosi (Brusset, 2001), essa è fondamentalmente un tratto del carattere che in forma problematica si ritrova nelle personalità borderline. Le azioni impulsive, sebbene denunciano l’incapacità del soggetto di sopportare tensioni e frustrazioni, sono comunque egosintoniche (McElroy et al., 1994), non solo perché lo scaricare fuori di sé malumori d’ogni sorta è nel breve termine, in qualche modo e misura gratificante, ma anche e soprattutto perché l’intenzionalità prevale sull’aspetto coatto, costrittivo dell’agire.
Esistono diverse osservazioni riguardo a come lo shopping compulsivo possa rappresentare una strategia messa in atto per alleviare uno stato depressivo. Infatti, emozioni negative come tristezza, solitudine, frustrazione ed irritabilità, incrementano la propensione all’acquisto in soggetti affetti da esso. Inoltre, tale modalità d’acquisto si associa spesso ed emozioni positive come sentirsi felici, potenti, competenti, rilassati o superiori (Rook, 1987). Al tempo stesso, però, essa non è in grado di colmare completamente i vuoti interni, non ha un effetto prolungato e finisce al contrario per incrementare la depressione. Alcuni soggetti hanno riferito che nel corso di uno stato depressivo solo lo shopping era in grado di migliorare il tono del loro umore (Christenson et al., 1994). E’ stato osservato che la motivazione all’acquisto può derivare da un tentativo di ottenere relazioni interpersonali positive ed una maggiore autostima piuttosto che dal desiderio di possedere gli oggetti (Faber et al., 1989). In quest’ottica il collegamento tra lo shopping compulsivo e la depressione potrebbe essere la bassa autostima (Sherhorn et al., 1990).
Secondo la teoria dell’apprendimento sociale (Bandura, 1986) lo shopping compulsivo può essere interpretato infine come un’incapacità di “autoregolare” i propri comportamenti. Questa autoregolazione include di norma tre sottofunzioni: l’auto-osservazione, i processi di giudizio e l’auto-reazione. In presenza di un disturbo come quello dello shopping compulsivo tutte queste funzioni sono invalidate, determinando nel soggetto un’incapacità nel controllare il proprio agito. La preoccupazione per lo shopping e la sensazione di urgenza e d’attrazione verso gli oggetti da acquistare impediscono l’autosservazione e il monitoraggio del proprio stato emotivo. La capacità di giudizio può altrettanto venire compromessa da false giustificazioni morali, etichettamenti eufemistici, confronti vantaggiosi tra se stessi oppure tramite autoinganni perpetuati, nascondendo a se stessi gli oggetti acquistati. La funzione dell’auto-reazione fornisce incentivi al comportamento attraverso auto-ricompense e auto-valutazioni positive; i compulsive shoppers, però, molto spesso sono depressi e incapaci di trarre soddisfazione o incoraggiamento dai propri successi, cadendo così in una spirale di sensi di colpa e disperazione per cui l’autostima crolla e comprare diventa sempre più un’azione incontrollabile.
Ma come mai allora lo shopping compulsivo rientra nella categoria delle nuove dipendenze? Diversi studi (Griffiths, 2002; Potenza et al., 2002) evidenziano come sia le dipendenze comportamentali sia quelle determinate dall’uso di sostanze abbiano una stretta somiglianza fenomenologica e siano ugualmente caratterizzate da: – sensazione di impossibilità di resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento (compulsività); – sensazione crescente di tensione che precede immediatamente l’inizio del comportamento (craving); – piacere o sollievo durante la messa in atto del comportamento; – percezione di perdita di controllo; – persistenza del comportamento nonostante la sua associazione con conseguenze negative.
Pur essendosi riacceso l’interesse circa questo problema sin dagli anni ’80, le ricerche empiriche e sull’efficacia dei diversi trattamenti non è stata florida e non ha dato risultati poi così inequivocabili.
In generale si può dire che solo alcuni approcci sono stati validati empiricamente e di essi è possibile dare una spiegazione un po’ più scientifica. La convinzione che un determinato approccio terapeutico funzioni non può infatti fondarsi unicamente sull’esperienza clinica dello psicoterapeuta (Migone, 2001).
Inizialmente si può optare per un intervento che miri alla riduzione del danno e che si basi su un’attenta considerazione dell’aspetto economico e finanziario. Sorrentino (2003) in merito a questo punto sottolinea come i primi passi da muovere verso una guarigione dovrebbero prevedere l’affidamento ad un tutor. Lo shopper compulsivo, inizialmente, dovrebbe evitare di andare in giro per negozi da solo ma dovrebbe farsi accompagnare da una persona, un amico o un familiare che conosce il suo problema e ponga un freno agli acquisti indiscriminati. Altri tipi di intervento sono l’approccio strategico e quello cognitivo comportamentale. Nell’approccio strategico è particolarmente interessante la tecnica della “prescrizione del sintomo”, che si basa sull’assunto che è inutile imporsi dei divieti perché ciò porta solo al desiderio di infrangerli. Da un’attenta analisi delle linee-guida stilate dall’APA, emerge che la psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, con le sue diverse tecniche e strategie, rappresenta ad oggi il trattamento di prima linea per molti disturbi psichiatrici, compreso il Compulsive Buying Disorder in quanto permette di insegnare al paziente una strategia adeguata di gestione dell’ansia e controllo sul proprio comportamento, che può divenire utile anche in altri contesti. Inoltre tale approccio si dimostra utile anche per la comprensione da parte dei pazienti delle distorsioni cognitive che sottendono agli acquisti. Negli Usa è stato pubblicato un manuale per la terapia cognitivo-comportamentale di gruppo specifico per lo shopping compulsivo. Dal 2003 è tuttora in corso uno studio per valutarne l’efficacia (Muller et al. 2005). Secondo Faber, fondamentale è anche l’aspetto affettivo del disturbo. Dal momento che molti pazienti riferiscono di comprare quando avvertono sentimenti negativi, è più utile lavorare su questi vissuti emotivi, sulle loro cause, sui contesti nei quali essi si verificano e sul significato che questo sintomo ha per il paziente e per quel contesto piuttosto che lavorare sulla “necessitò di comprare” avvertita dal paziente.
Anche le terapie di gruppo potrebbero rivelarsi efficaci poiché i pazienti potrebbero trarre beneficio dal confronto e dalla condivisione di problematiche comuni. Le terapie dinamiche analiticamente orientate possono trovare spazio e indicazione nei casi in cui è opportuno mirare a un cambiamento più generale della personalità del soggetto rispetto all’inattivazione del sintomo o dalla sola attuazione del disturbo.